lunedì 11 febbraio 2013


C’è più di un modo di essere su un’isola.

 

Isola: lembo di terra emersa completamente circondato dall’acqua, di dimensioni inferiori a quelle di un continente, dice Wiki. Immagino che per continente si intenda terra emersa completamente circondata dall’acqua ma di dimensioni superiori a quelle di un’isola, però non ho controllato. Comunque, benchè vagamente ambigua nella zona grigia, zona dove collocherei l’Australia, per dire, è una buona definizione. Geograficamente parlando.

Ma noi non stiamo parlando di geografia. Stiamo parlando di ecologia, di ecosistemi, di evoluzionismo, di scambio genico, roba così. Perciò, da questo angolo visuale, una definizione ristretta di isola potrebbe essere: luogo circondato da acque che impediscono alle popolazioni che vi risiedono, a causa di caratteristiche delle popolazioni stesse, di avere scambio genico con altre popolazioni della stessa specie che vivono altrove. In quest’ottica lo stesso pezzo di terra in mezzo al mare è un’isola per una rana e non lo è per una sula. Perciò io direi che l’essenza di un’isola, da un punto di vista di scambio genico fra popolazioni, non risiede tanto nell’acqua che la circonda quanto nelle caratteristiche degli organismi che compongono la popolazione.

E allora, e sempre limitatamente al campo nel quale ci arrabattiamo, l’evoluzionismo, proporrei una versione allargata della definizione: popolazione (o insieme di popolazioni) che, a causa delle proprie caratteristiche o dell’interazione delle stesse con l’ambiente, è impossibilitata ad avere scambio genico con altre popolazioni della stessa specie. In questa definizione ci stanno dentro comodi gli ecosistemi insulari veri e propri, ma c’è spazio anche per un mucchio di altra roba.

L’esempio più vicino al concetto geografico di isola immagino siano i nunatak, montagne prive di ghiaccio che spuntano da immensi campi ghiacciati. In realtà lembi di terra completamente circondati dall’acqua. Solida. Hanno svolto un compito importante durante le glaciazioni, permettendo la sopravvivenza, e la diversificazione per deriva genetica, di piccoli ecosistemi chiusi.

Quasi al contrario si potrebbero vedere le grandi catene montuose, luoghi dove il ghiaccio è rimasto circondati da ambienti più caldi. La flora e la fauna di epoca glaciale si sono ritirate verso nord e verso le alte quote allo scioglimento dei ghiacci, con il risultato che le popolazioni della penisola scandinava e quelle delle Alpi, per fare un esempio, pur derivando dagli stessi antenati, sono impossibilitate ad avere scambio genico fra loro e quindi si stanno differenziando proprio come se fossero su due isole diverse.

Gli scimpanzè, i nostri parenti più stretti, hanno una variabilità genetica fra popolazioni diverse di molte volte superiore a quella umana. Certo, per quanto riguarda l’uomo si tirano in ballo diverse cause a giustificarne la scarsa variabilità: il famoso, ipotetico, collo di bottiglia (che non mi convince moltissimo, ci vedo altre possibilità), la propensione al continuo spostamento e conseguente rimescolamento, e così via. Ma rimane il fatto che gli scimpanzè vivono su isole. Isole che nessuno riconosce come tali, ma in buona sostanza lembi di terra quasi completamente circondati dalle acque. E queste acque sono i fiumi che scorrono nella foresta pluviale. Sono ostacoli da nulla, dal nostro punto di vista, e anche dal punto di vista di quasi tutte le specie che vivono lì, ma gli scimpanzè non mettono piede nell’acqua, a meno di caderci dentro, e perciò, da tutti i punti di vista, ogni popolazione vive su un’isola. Un po’ di scambio genico certamente esiste (un naufragio su un albero, un periodo di siccità, l’occasionale aggiramento dell’ostacolo andando verso monte), ma certo è limitato dall’acqua.

Altro esempio, sempre con attinenza alla geografia, ma soprattutto alle distanze geografiche, è quello delle specie ad anello. Larus fuscus e L. argentatus convivono senza potersi ibridare (sono quindi due specie diverse) nel Nord Europa. Se però percorriamo l’areale circumpolare di L. argentatus  muovendoci verso Ovest incontreremo tutta una serie di sottospecie, ognuna interfeconda con quelle limitrofe, e mano a mano sempre meno simili a L. argentatus e più simili a L. fuscus, fino ad arrivare, nel nord della Russia, alla distinzione tassonomica fra le due specie. E questo è già un modo più insolito di essere un’isola. Voglio dire, le due specie sono sì, funzionalmente, su un isola, ma l’isola è tale solo da un lato, verso Est per L. argentatus e verso Ovest per L. fuscus. Nell’altra direzione nessuna discontinuità separa le due specie, c’è flusso genico fra popolazioni limitrofe, e solo la distanza, evidentemente superiore alle possibilità dello scambio genico, funge da ostacolo.

Ma finora, tutto sommato, è sempre una questione di geografia. Però ci sono anche modi esclusivamente genetici di essere su un’isola. La partenogenesi è il più ovvio. Ogni individuo è sulla sua isola personale, ogni individuo è una popolazione senza scambio genico con il resto della specie, separato non dall’acqua ma dalla strategia riproduttiva. Non abbiamo una gran quantità di quelli che in altra situazione chiameremmo endemismi, vero, ma da un lato ciò si deve al fatto che le “specie” partenogenetiche hanno di solito vita breve (con la notevole eccezione dei Rotiferi bdelloidei), e dall’altro a cause più complesse, almeno a mio modo di vedere, ma che richiederebbero troppo spazio per chiarirle qui.

Altro modo genico di vivere su un’isola è lo svantaggio della via di mezzo. Buona parte delle specie di fringuelli di Darwin sarebbero interfeconde, ma non si ibridano pur vivendo spalla a spalla, o, se si ibridano, in tempi normali la prole ha meno fitness dei genitori. Questo perché la specializzazione del becco consente un foraggiamento ottimale, mentre un becco intermedio è subottimale. Perciò lo scambio genico fra becco grosso adatto a semi grossi e becco fine adatto a semi piccoli (per semplificare), producendo una prole con becco poco adatto ad entrambi i tipi di semi, si esaurisce alla prima generazione. Per dirla in un’altra maniera, è possibile che in una popolazione, per quel che riguarda un determinato carattere, la variabilità dello stesso non sia rappresentata da una curva a campana, bensì da una gobba di cammello, con due valori ottimali e quello intermedio subottimale. In questo caso, pur in assenza di mari tropicali tutt’attorno, i portatori dei due alleli ottimali si separeranno in due popolazioni diverse, trascinandosi dietro, per deriva genetica, frequenze diverse anche su tutti gli altri alleli.

Ancora più drastico, e di gran lunga più efficace anche del mare aperto (voglio dire, non lo bypassi neanche con una zattera di mangrovie), è l’isola che ha inventato una popolazione di Drosophila sp.(ohi! Non ricordo se era melanogaster, ma con ogni probabilità lo era). Il meccanismo è semplicissimo, la speciazione simpatrica immediata: due alleli dello stesso gene sono letali in eterozigosi. Abbiamo quindi due popolazioni in omozigosi per due alleli diversi, senza possibilità di scambio genico, ognuna delle quali si porta dietro una frequenza casuale di alleli di tutti gli altri geni. Più separate che se fossero una a S. Elena e l’altra sull’isola di Pasqua.

Poi esiste anche un modo culturale di essere su un’isola. Non mi sto riferendo a quei piccoli gruppi religiosi che praticano l’endogamia, perché non si differenziano molto dal resto della popolazione, se non per qualche allele subletale fissato (l’endogamia, per quel che riguarda gli esseri umani, diciamo che non sempre brilla per la drasticità della sua applicazione, come dire).  No, penso ai Pigmei e, in misura minore, ai Koi-San.  I Pigmei sono parecchio diversi dai loro vicini Bantù, e se i Bantù possiedono qualche carattere dei Pigmei, i Pigmei non possiedono caratteri Bantù (caratteri specifici dei Bantù, intendo. Sono sempre appartenenti entrambi alla specie umana). Questo per un motivo culturale. I Bantù si sono sempre considerati superiori ai Pigmei, e quindi nessuna donna Bantù sarebbe mai andata in moglie ad un Pigmeo, mentre un uomo Bantù non aveva difficoltà a cacciarsi nell’harem anche una piccoletta. Da qui un flusso genico unidirezionale, una membrana semipermeabile che lascia passare alleli Pigmei ma blocca gli alleli Bantù. I Pigmei sono su un’isola, un’isola che nessun altro vede. (Mi verrebbe da pensare che, fra gli afroamericani, la norma sia cromosoma y caucasico e cromosoma x africano, ma è auspicabile che questa posizione culturale sia stata superata già da un po’).

In conclusione, i geni hanno un mucchio di modi di essere su un’isola, e alcune di queste isole sono davvero strane.
 
 
 
 
 
Questo blog partecipa al Carnevale della Biodiversità, edizione Darwin day 2013. Il tema è "L'isola che c'è". Vai qui per una rassegna degli altri post.
 
 

martedì 21 agosto 2012

Notte storta


Diciamo che c’è un idraulico che crede nell’oroscopo.  Niente di male. La mattina, alle sette e quaranta, ordina il suo caffè corretto al bar, posa l’occhio sulla prima pagina del giornale (tanto per essere sicuro che non siamo in guerra con qualcuno), poi lo apre sulle previsioni del tempo (tanto per essere sicuro che non stia piovendo), e poi l’oroscopo. Vergine. Sì, lo so, è contro l’immaginario popolare, ma credo che ugualmente esistano, possano esistere,  postini e idraulici vergini, nel senso del segno. O anche in altri sensi, tutto sommato.

“Oggi la Luna in storione crea un riflusso negli astri del tuo segno che ti coglie di sorpresa. Ma non c’è problema, perché Marte ti garantisce che tutto va liscio. Alla grande!”

Ok, ancora niente di male. Poi viene a casa mia e mi monta le valvole rovesce per via del riflusso. Che non lo coglie di sorpresa, l’aveva letto sul giornale… Solo che il riflusso coglie _me_ di sorpresa, quando l’acqua esce invece che entrare.

Va bene, va bene, non serve estremizzare. Diciamo che non ci crede abbastanza da invertire le valvole, però  ci crede abbastanza da fare un lavoro di merda e tirare lo stesso i soldi, perché Marte glielo garantisce. Ohi, ci ha la Luna in storione, mica cazzi!

Cosa voglio dire? Voglio dire che un idraulico, alla peggio, ti allaga la cantina, e comunque non dura più di un mese sul mercato, se lavora basandosi sull’oroscopo. E voglio dire che un evoluzionista credente (in una qualunque accezione del termine, rimane pur sempre un’accezione antiscientifica) può esistere se è pazzo. Pazzo in quel senso buffo, che non esiste, pazzo nell’avere due personalità distinte, una che fa scienza e un’altra che va in chiesa. Altrimenti no.

Il punto è piuttosto semplice: se fai scienza non puoi avere preconcetti per definizione, se sei credente hai preconcetti per definizione. E a una prima occhiata le due cose paiono in leggero contrasto.

Poi, capiamoci. Ovvio che anche chi fa scienza ha dei preconcetti. Viviamo in un contesto culturale, in una società che porta il segno del suo tempo. E non è vera quella stronzata che prima trovi i dati e poi formuli la teoria. Come già diceva Darwin, nessun dato ha senso se non è a favore o contro una teoria. Si parte, tutti,  da una visione del mondo, e si cerca di dimostrarla. Vero, assolutamente vero.

Ma il punto è un altro. Il punto è che chi fa scienza può, comprensibilmente (diciamo in modo etologicamente comprensibile) rimanere fedele alla propria teoria anche a fronte di prove che la  contrastano. Solo che, nella scienza, questo non è un merito, bensì una colpa. Mentre, al contrario, per chi professa una fede, le prove che la affossano sono, devono essere, irrilevanti, altrimenti non ci sarebbe merito nel credere. “Credo perché è impossibile”, no? Quindi è un merito, e non una colpa, andare contro i fatti, le evidenze.

Per  questo io penso che ai credenti, che poi già il termine li qualifica, dovrebbe essere vietato di teorizzare nel campo dell’evoluzionismo. Non che la fede implichi una mancanza di qualità a livello di tecnica di laboratorio. E non che io creda  possibile (anche se mi piacerebbe crederlo) una selezione negli scienziati basata sulle cazzate di cui si professano certi. E’ solo che un credente, un credente a priori in qualunque cosa, fossero anche gli spaghetti volanti, non è uno che fa scienza. E’ uno che cerca conferme dei suoi preconcetti  o negazioni dei preconcetti altrui. Il che, come dicevo sopra, è esattamente quello che fanno anche gli scienziati. Solo che il credente pensa sia un punto di merito, lo scienziato, se beccato, se ne vergogna.

Inoltre, qualunque cazzo di fede implica il finalismo. E il finalismo è il nemico ultimo dell’evoluzionismo. Non si può ragionare evoluzionisticamente se si crede in dio. Ohi! Niente in contrario alla fede, beninteso! Se non infibuli la figlia, se non tiri giù grattacieli, se non trovi giusto e corretto picchiare la moglie col bastone tutte le sere, e se non vuoi il mio otto per mille, credi in quel cazzo che ti pare. Solo, e questa può sembrare la mia religione, non penso che un credente possa fare scienza. Può, se lo scienziato lo sopporta, fare il tecnico di laboratorio. O fare le pulizie, tanto sarà ricompensato nel regno dei cieli, e questa vita di merda è solo un passaggio.

lunedì 21 maggio 2012

Ciotole adattative, seconda parte.


Bene, abbiamo quindi un problema, come visto sopra (o meglio sotto): è ragionevole presumere che una popolazione rimanga per lunghi periodi all'incirca uguale a se stessa, bella placida sul fondo della sua ciotola, e però non si spiega come, di punto in bianco, le venga il ticchio di speciare. In altri termini, abbiamo record fossili che testimoniano la cocciuta persistenza di un determinato fenotipo seguita quasi fulmineamente e imprevedibilmente da una variante o da un grappolo di varianti drasticamente diverse. E allora proviamo a vedere la cosa dal punto di vista degli alleli.


Se si osserva una popolazione nel tempo (e limitatamente a questo ambito), quello che un allele fa è riprodursi oppure no o, più drasticamente e in ultima analisi, fissarsi o scomparire. Mi piacerebbe, per quanto possibile, evitare l'antropomorfizzazione degli alleli, in modo da saltare a piè pari alcune apparenti complicazioni. Voglio dire che se non usiamo termini come "strategia", "vantaggio", "egoismo" e così via, sgomberiamo il campo di molti possibili fraintendimenti. Un  allele aumenta o diminuisce la sua frequenza nella popolazione in un ambito di tempo, ed è tutto qui. Se la sua frequenza aumenta (il che è l'unico criterio possibile per parlare di una _sua_ maggiore o minore funzionalità), è segno che si è riprodotto più degli altri, è una tautologia. Nel numero di generazioni considerate, certo. Un allele, in fondo, può essere dannoso alla popolazione in cui si diffonde, e diffondersi ugualmente, al punto di causare l'estinzione di chi lo porta. Ma questo non è affar suo. Lui si replica o non si replica e basta.


Provo a dirlo meglio. Dapprima nella cascata di eventi dell'ontogenesi, e poi nel mero sopravvivere e riprodursi dell'individuo, ogni allele è imprigionato in un esperimento, per così dire. Svolge il suo ruolo, o viene impedito nel farlo, in funzione di come l'organismo nel quale è rinchiuso reagisce a circostanze esterne imprevedibili. Certo, la funzione che l'allele svolge o non svolge può avere rilevanza sul modo in cui l'organismo funziona, e certamente gli altri alleli degli altri geni possono influenzare la funzionalità del singolo allele, ed esserne influenzati. Ma non è il singolo allele che viene sottoposto a selezione, bensì il risultato della sua collaborazione con tutti gli altri, e cioè l'organismo. E l'organismo fa parte di una popolazione, la quale non necessariamente riceve un vantaggio dalla riproduzione di quel singolo organismo e di tutti gli alleli che contiene. Ma questo è irrilevante per quel che riguarda il punto di vista che propongo, e cioè che, indipendentemente dai motivi e dai vantaggi, per ogni gene all'interno di una popolazione ci sarà un allele più frequente, e che quell'allele sarà più frequente perchè aiuta o non ostacola la riproduzione di chi lo porta, e quindi di se stesso.


Se la vediamo così avremo, per ogni gene all'interno di una popolazione in un tempo puntuale, un allele più frequente. Cioè in un momento dato, ognuno dei (boh) ventimila geni di quella popolazione si presenterà più frequentemente sotto la specie di un allele piuttosto che degli alleli alternativi. Quasi una firma allelica che identifica una popolazione, per così dire.

Ma l'ambiente primario nel quale gli alleli svolgono la propria funzione, l'ambiente dal quale vengono maggiormente influenzati nella cascata di eventi che porta alla riproduzione (o alla mancata riproduzione) dell'individuo che li contiene, sono gli alleli stessi. Ogni gene, o quasi, influenza altri geni, che ne influenzano altri ancora, e le varianti alleliche dei geni non sono certo irrilevanti per l'ottimizzazione del processo. La quasi totalità della variabilità fenotipica ereditabile di una popolazione, e quindi il suo potenziale evolutivo, dipende dalla sua variabilità allelica. Un allele, per aumentare la propria frequenza nella popolazione, deve trovarne altri, su altri geni, i quali, interagendo con lui nel modo migliore, portino al risultato di un individuo che si riproduce più degli altri individui della popolazione. Se questo è vero, allora ne discende che gli alleli più frequenti, quelli della firma allelica, sono anche gli alleli che più frequentemente si ritrovano assieme nello stesso individuo. La firma allelica sarebbe, cioè, la combinazione ottimale teorica, avvicinandosi alla quale un individuo aumenta la propria fitness. Ma naturalmente il fatto che si riproducano più frequentemente gli individui che tendono geneticamente ad avvicinarsi alla stessa distribuzione allelica, rende i fenotipi della popolazione piuttosto standardizzati e centrati sulla media.


Bene, abbiamo dunque degli individui che vengono tenuti sul fondo della ciotola dalla forza di attrazione della firma allelica, scostandosi dalla quale la fitness diminuisce, e avvicinandosi alla quale il fenotipo si mantiene invariato.


Ho posto un paio di volte la limitazione "in un momento dato", riferendomi alla firma allelica. Questo perchè ovviamente le frequenze alleliche in una popolazione tendono a fluttuare nel tempo. Alcuni alleli possono essere mantenuti in eterozigosi, con percentuali fisse, da particolari pressioni selettive, ma in linea di massima la firma allelica si modifica nel tempo. Ma allora, ci si potrebbe chiedere a questo punto, tutte quelle chiacchiere sull'impossibilità di uscire dalla ciotola, sul parlamento di alleli che cassa ogni modifica seria, sulla difficoltà quasi insormontabile di un adattamento graduale, erano tutte fesserie? Come si può far andare d'accordo l'interdipendenza obbligata fra alleli, che si risolve nella firma allelica, con il fatto che la firma cambia nel tempo?


Il fatto è che viene selezionato non l'allele, ma l'organismo. E che ci sono più modi di scuoiare un gatto.

Quello su cui i vari alleli devono concordare è un fenotipo di compromesso, nel quale ogni miglioramento di un carattere implica il peggioramento del complesso dei caratteri. Ma questo non significa che ci sia un solo insieme di alleli in grado di ottenere il risultato. Ci possono essere diversi insiemi di alleli che danno suppergiù lo stesso risultato fenotipico, e da questo consegue che la firma può variare nel tempo senza implicare una variazione del risultato, e può variare usando gli alleli presenti nel pool della popolazione in quel determinato momento. Sembrerebbe un'affermazione basata in aria, ma spiega, a livello di ipotesi, la costanza per lunghi periodi del fenotipo nei record fossili. Per trovare argomenti a sostegno dell’ipotesi possiamo guardarci intorno e cercare qualche esperimento naturale sul lungo termine, e i Rotiferi bdelloidei sembrano inventati apposta.

Le "specie" di rotiferi bdelloidei sono valide tassonomicamente a livello fenotipico, ogni individuo è decisamente e inequivocabilmente ascrivibile ad una “specie” ben determinata. Perché virgoletto il termine “specie”? Perché i Rotiferi bdelloidei sono tutti partenogenetici, non è mai stato riscontrato un maschio in nessuna specie, e quindi si potrebbe dire che ogni singolo individuo è una specie, o almeno una popolazione, a sé stante. Stiamo quindi parlando di miliardi di individui che si sono riprodotti per  un numero di generazioni nell’ordine dei nove zeri, senza scambio genico fra loro. Un esperimento veramente grandioso! Consideriamo poi che i nostri si distribuiscono nel mondo entrando in anidrobiosi e facendosi trasportare dal vento, con il risultato che possono trovarsi a caso in tutte le situazioni ambientali possibili sul pianeta, e che quindi, in teoria, qualunque mutazione che rendesse un individuo adatto ad un qualsiasi ambiente avrebbe buone probabilità di trovare quell’ambiente. Alla luce quindi di un gradualismo nella speciazione, cosa dovremmo attenderci? Io direi che sarebbe inevitabile trovarci alla presenza di un putiferio di “specie”, quasi ogni individuo che imbrocca la sua strada solitaria. Secondo la mia ipotesi, invece, dovremmo avere poche specie con una discreta costanza fenotipica e una notevole variabilità allelica. Poche forme inchiodate sul fondo delle ciotole, e parecchi modi diversi di produrre quelle forme. Ed è quello che abbiamo. Miliardi di individui in quaranta milioni di anni con un tasso riproduttivo (in condizioni adatte) di una generazione a settimana, hanno prodotto meno di duecento “specie”, specie valide fenotipicamente, ma con una variabilità genetica fra gli individui molto superiore a quella di una specie a riproduzione sessuata. Come è possibile?

Beh, il punto non è che duecento specie siano poche, il punto è che sono troppe. Se l’attrazione sul fondo delle ciotole è così potente, se il gradualismo è così inefficiente, dovremmo avere ancora una singola specie. Duecento eccezioni alla regola sembrano una cifra un po’ eccessiva.

Quindi siamo daccapo. E la speciazione?

La pressione selettiva tende a raggruppare la popolazione attorno alla firma allelica, una diminuzione di pressione al contrario aumenterà la variabilità allelica, o, per meglio dire, la frequenza relativa degli alleli meno adatti. Ora, abbiamo visto che una volta raggiunto un fenotipo stabile, una firma allelica di ragionevole compromesso, variarla in una specifica direzione sia davvero difficile. Ma deve essere pur stata raggiunta una prima volta, e come, se a piccoli passi è così improbabile?

Poniamo che una popolazione si trovi ad avere scarsa pressione selettiva, per motivi contingenti (non so, un'estinzione dei competitori, una nuova via fluviale per una massa d'acqua vergine...), e che quindi le frequenze alleliche meno adatte siano scremate con minore efficienza. Abbiamo un brodo allelico primordiale, che fa gorgo attorno alla firma, come ad un attrattore. Ma è così impossibile pensare che fra gli alleli meno adatti possa esistere una nuova, diversa, firma allelica, una nuova combinazione funzionale, che porta ad un nuovo, diverso fenotipo, egualmente in equilibrio? Un secondo gorgo, un secondo attrattore? Una nuova strada per arrivare al risultato di riprodursi? Dopo tutto, se alleli diversi possono produrre lo stesso fenotipo, perchè non potrebbero produrne uno diverso?


Provo a chiarirmi con un esempio. Poniamo di dover visitare, per motivi di lavoro, cinquanta città degli Stati Uniti. Per trovare un percorso ottimale dovremo prendere in considerazione sia il tempo di volo sia gli orari delle coincidenze nei vari aereoporti. Trovato, a forza di tentativi ed errori, il tragitto più breve, scopriamo che ci fa partire da New York e finisce a Los Angeles. A volte, per ritardi aerei, per appuntamenti mancati, per contrattempi qualsiasi, varieremo di poco il percorso, ma il risultato finale sarà sempre l'arrivo a Los Angeles, con ritardi accettabili. Difficile cambiare un periplo di cinquanta città improvvisando a partire da un aereo perso a Miami. Però il tempo passa, e gli orari delle partenze cambiano. E si da il caso che siamo in un periodo di stanca, in cui ci possiamo permettere qualche esperimento. E, guarda un po', viene fuori che New York/Los Angeles è ancora buono, ma se parto da Boston e finisco a S.Francisco ci metto lo stesso tempo. I due percorsi sono alternativi, validi entrambi, percorribili entrambi. Ma S. Francisco non è Los Angeles. E soprattutto qualunque miscuglio fra i due percorsi è perdente in termini di tempo di percorrenza.


Cosa voglio dire? Voglio dire che, all'interno del pool allelico della popolazione, potrebbe comparire, per caso, un insieme di alleli altamente funzionale e diverso da quello della firma. E che, se questo comparisse, porterebbe velocemente a speciazione simpatrica, in quanto gli individui più vicini a una o l'altra firma avrebbero maggiore fitness di quelli intermedi, e quindi avrebbero maggiore fitness degli "ibridi". La popolazione si divide in due raggruppamenti allelici, dove chi è più vicino all’una o all’altra firma si riproduce maggiormente. La ciotola è diventata _due_ ciotole, così, d'improvviso, senza macromutazioni, solo usando quel che c'era. Gli agenti di commercio che seguono la tratta New York/Los Angeles, come quelli che fanno Boston/S. Francisco, mantengono il posto, gli altri vengono licenziati per inadempienza, e così si eliminano tutti i percorsi misti. Ma, ripeto, Los Angeles è diversa da S. Francisco.


Non sto sostenendo che da una salamandra salta fuori una lucertola di punto in bianco! Quello che dico è che prima avevamo una firma allelica teorica ottimale, che non era verosimile trovare espressa in alcun individuo della popolazione, ma che favoriva riproduttivamente gli individui che più ci si avvicinavano. Però, essendo così improbabile centrarla perfettamente (una combinazione su ventimila alla quinta…), rimaneva comunque una variabilità allelica, sotto forma di individui subottimali che però erano migliori di altri. Si potrebbe dire che la firma allelica disegna l’ipotetico individuo ottimale dal punto di vista riproduttivo, fermo restando che quell’individuo non esiste né è mai esistito. Né potrebbe esistere. Voglio dire, puoi avere la combinazione perfetta e beccarti un baobab in testa.

(Non vorrei  essere frainteso. La firma allelica è qualcosa a posteriori. Se esiste, per ogni gene, un allele più comune nella popolazione, è segno che in qualche modo quell’allele è riuscito a fare più copie di se stesso. E l’insieme degli alleli che sono riusciti a fare più copie di se stessi costituisce, di fatto, l’insieme ottimale. Il caso, il baobab, intervengono prima, e noi vediamo il risultato dopo. Non ci importa nulla del motivo per cui quell’allele è lì, visto che non esiste un motivo. Ci limitiamo ad una conta a posteriori. E’ in quest’ottica che io trovo incomprensibile la frase di Eldredge “I dinosauri si sono estinti nonostante avessero i geni migliori.” I geni, beh, gli alleli migliori sono quelli che fanno più copie di se stessi. Se non si replicano, indipendentemente dal motivo, allora non sono i migliori, per definizione. Altrimenti mi si deve proporre una definizione di migliore diversa da questa. In buona sostanza, la firma allelica non è un ipotesi di individuo ottimale, è un’osservazione statistica a posteriori.)


Bene, prima avevamo una firma allelica, ora ne abbiamo due. E quella neonata, ancora sperimentale, è passibile di modifiche e migliorie, anche su tempi brevi a scala geologica. Un riassemblamento del materiale allelico disponibile. Se imbrocchiamo un nuovo allineamento possibile, una nuova sequenza allelica funzionale, diversa da quella precedente, si innescherà inevitabilmente un effetto di retroazione a rinforzo, perché i miscugli fra le due saranno lontani da entrambe le firme, da entrambi i centri di attrazione, e quindi saranno, ancora una volta per definizione, peggiori nel fare copie di se stessi. L’incappare casualmente in un insieme allelico alternativo a quello ottimale ma altrettanto funzionale, e il conseguente effetto di rinforzo, costituiscono, assieme, la mia ipotesi di speciazione simpatrica rapida, senza bisogno di nessun deus ex machina.


Non è bello? Una popolazione vista come un cielo di alleli che fluttuano come asteroidi, in tre dimensioni, attorno ad un centro di gravità che è ora più forte e ora più debole. E in un attimo in cui il centro è più debole, in cui le orbite sono più lasche, improvvisamente e per caso alcuni asteroidi massicci si incontrano in un punto della periferia, deviano alcune rotte, e si forma un centro di gravità alternativo. Il movimento si complica, le orbite diventano incerte, e poi tutto si stabilizza in un nuovo sistema con due attrattori, ognuno con i propri asteroidi, e nessuno dei due è migliore, più evoluto. Solo diverso. Due ciotole.

lunedì 11 aprile 2011

Ciotole

Ciotole adattative

La speciazione, l'origine di una nuova specie, almeno prima che S.J.Gould puntasse il dito su dati già noti ma un po' snobbati, era vista perlopiù come un evento gradualistico. Diciamo che l'esempio standard, introiettato quasi a livello subliminale, era quello del cavallo. Da Hyracotherium, 40 centimetri di altezza e quattro dita, a Mesohippus, tre dita e 60 centimetri, a Merychippus, sempre tre dita ma un metro, a Pliohippus, uno e venticinque e un dito solo, a, finalmente, Equus, col suo bel metro e sessanta e il ditone. Una sequenza graduale durata cinquanta milioni di anni, durante la quale la stessa linea evolutiva si perfeziona man mano, come un frassino che cresca nel fitto, con qualche rametto qui e là, ammettiamolo, ma il tronco dritto come una sarissa macedone, con Hyracotherium alla base e Equus facente funzione di gemma apicale.

Ma la natura birbona, sotto forma di evidenze paleontologiche innegabili, ha portato a modificare leggermente il punto di vista. Voglio dire, io non sono un fanatico degli anelli mancanti (per ogni anello mancante trovato se ne creano due adiacenti, e non si può certo pretendere una perfetta e puntuale continuità nei record fossili). Il fatto pero' che la specie successiva compaia quasi sempre di punto in bianco, già bella e definita, qualche dubbio lo lascia.
Perciò si è optato (Mayr, se non sbaglio) per una soluzione più adeguata ai fatti osservati. La versione modificata dice che la popolazione originaria si è trovata ad essere divisa in due da qualche evento (perlopiù geologico). In seguito alla separazione fisica una delle due popolazioni è gradualmente cambiata, vuoi per deriva genetica vuoi per adattamento ad un ambiente diverso (abitualmente, e dispettosamente, senza lasciare fossili). Ad un certo punto poi il limite fisico/geografico è scomparso e le due popolazioni si sono riunite, ma ormai erano troppo diverse per essere interfeconde. In pratica, sono diventate due specie diverse.
 Gradualismo, pur sempre gradualismo, ma condito da un episodio di allopatria.

Lo so, lo so, sto creando un semplicistico fantoccio di paglia per poi infilarci quante frecce voglio. In realtà sono molti i modi di speciazione che vengono presi in considerazione, e non tutti sono gradualistici. Ad esempio la speciazione per ibridazione o quella per poliploidia possono avvenire anche nel lasso una sola generazione, e quindi tutt'altro che gradualmente. E lo stesso Dawkins, che propende per il gradualismo, sottolinea però che è da intendere in senso geologico, a bassa risoluzione, come dire. Per usare il suo esempio, il fatto che l'esodo degli ebrei dall'Egitto alla Palestina sia durato quarant'anni non significa che gli ebrei spostassero le tende di (boh, non ricordo) cinque centimetri al giorno. Possono essersi fermati tre mesi in un posto, e poi cinque anni in un altro, e così via. Sempre gradualismo, certo, ma in versione più moderata.

Il punto è, però, che in assenza di forti evidenze che, caso per caso, lo neghino, il modello gradualistico (in allopatria o in simpatria) è considerato come assodato, nè viene in mente di discuterlo. E' qualcosa di sottinteso, come il colore di un mandarino, che viene specificato solo se non è arancione. In questo (non solo, ma anche) contesto Wright propone il concetto di Wright di paesaggio adattativo e di picchi adattativi.

Wright ha visualizzato il processo evolutivo come un paesaggio formato da picchi separati da valli, più o meno profonde. Sul colmo di ogni picco la fitness media (di una popolazione, di una specie, di un qualunque clade) è alta, mentre scendendo nella valle essa diminuisce. E' solo una rappresentazione visiva, ovviamente, ma piuttosto suggestiva.
Ora, i picchi si muovono. Si muovono nel senso che essi rappresentano l’ambiente, il contesto in cui una parte della popolazione ha fitness maggiore di un’altra, e l’ambiente, il contesto, si modificano nel tempo.
La conseguenza è che la parte di popolazione che stava su quella che prima era la vetta adesso si trova un po' più a valle, e gli individui ora in vetta acquisiscono maggiore fitness. Quindi la specie (la popolazione) evolve.
Immaginiamoci una tartaruga sotto un lenzuolo, e una popolazione di esserini che vive sopra il lenzuolo. Chi si trova ad essere proprio in corrispondenza del colmo del dorso della tartaruga farà più figli degli altri. Ma la tartaruga cammina, piano piano, sollevando gli individui che prima erano un po’ più a valle e lasciando indietro quelli che prima erano in vetta. Ora sono altri, quelli che fanno più figli, e magari sono un pochino diversi dai precedenti.

Visto che la fitness è maggiore sulle vette e minore nelle valli, niente può passare da una vetta all'altra. Infatti qualunque linea filetica che si avventurasse nella traversata dovrebbe spingersi verso valle, e quindi avrebbe  meno discendenti sia della popolazione della vetta di partenza sia di quella della vetta d'arrivo, cioè, in altri termini, gli alleli per andare verso valle non potrebbero diffondersi nella popolazione.
Spostarsi verso valle costa in termini di fitness, rimanere sulla vetta paga in termini di fitness. L'unica cosa possibile è seguire il graduale spostarsi del picco, oppure estinguersi. Di nuovo il gradualismo, implicito e inevitabile.

(Verrebbe da chiedersi il perchè di questa entusiastica preferenza per il gradualismo. Il motivo è essenzialmente storico, ed emblematico dell'inerzia che pervade, spesso a livello inconscio, il pensiero scientifico, anche a dispetto dei dati. Prima di Darwin prevaleva il cosiddetto catastrofismo, sintetizzabile in una serie di diluvi universali e successive creazioni divine ex novo. Questo perchè i dati paleontologici cominciavano a presentare evidenze troppo contrastanti con l'ipotesi di un'unica creazione, e in qualche modo si doveva pure sfangarsela. Fu un mentore di Darwin, un geologo, Lyell, a concepire il gradualismo per spiegare determinate formazioni geologiche, e Darwin lo incorporò nella sua teoria. Da allora in poi il catastrofismo è diventato una specie di bestemmia in campo evolutivo, all'inizio con buone ragioni, in seguito come preconcetto spesso nemmeno coscientemente percepito. Ad esempio di ciò basti ricordare come, anche in tempi recenti, il mondo scientifico ha accolto la teoria degli Alvarez (estinzione dei dinosauri causa meteorite = catastrofismo): anche a fronte di dati verosimili e verificabili, la plausibilità, almeno in un primo momento, è dovuta soccombere all'indignazione. Nessuno ha gridato "Sacrilegio!", ma il tono era quello. Sfortunatamente la scienza è fatta dagli uomini, ma fortunatamente è un metodo e non un dogma, quindi adesso la teoria è generalmente accettata.)

Bene, a me non piacciono i picchi adattativi. Non mi piace il concetto. Con questo non voglio negare la possibilità di un adattamento graduale, da parte di una popolazione, ad un mutare graduale delle condizioni di contorno, ad una passeggiata della tartaruga sotto il lenzuolo. E’ possibile, certo. Ma, secondo me, come caso particolare, come eccezione, non come regola. La regola, per come la vedo io, è esemplificata dal concetto, piuttosto, di ciotola adattativa, che introdurrò più sotto.

Come Gould ha fatto notare (non necessariamente scoperto, perchè in molti casi erano dati già noti) le specie tendono a rimanere all'incirca uguali a se stesse per lunghi, anche lunghissimi periodi di tempo, per poi cambiare improvvisamente. Ha riportato anche esempi da manuale, serie praticamente continue nel tempo in giacimenti insoliti ma persuasivi, a sostegno di quella che lui ha chiamato la teoria degli equilibri punteggiati. Con tutta la stima che ho per Gould, non concordo affatto con le conclusioni ultime che lui ha tratto da questi dati, ma i dati stessi sono innegabili. E dicono che il gradualismo è semmai l'eccezione, non certo la regola. Nè mi pare un fatto sorprendente.

Mi rifarei qui all'ultima frase del post "Le specie egoiste". Gli alleli all'interno di una popolazione sono in competizione fra loro, e perciò le frequenze alleliche mutano, o meglio fluttuano, nel tempo. Ma l'ambiente primario che determina il successo o l'insuccesso di un allele sono gli alleli degli altri geni. Per fare un esempio stupido, se il tuo metabolismo è più veloce resisterai meglio al freddo, ma dovrai mangiare di più, il che implica maggior tempo esposto a predazione. Se i tuoi muscoli rispondono in modo eccezionale allo scatto breve, ne soffrirà il sistema circolatorio e si allungheranno i tempi di recupero. Se aumenti il numero di uova per covata il tuo metabolismo del calcio ne soffrirà, così come anche aumenterà il tempo di foraggiamento a nido incustodito. Sono esempi semplicistici, ma quello che intendo è che ogni carattere fenotipico di un individuo è un compromesso con tutti gli altri, una via di mezzo non ottimale per nessuno dei caratteri, ma il meglio che si possa ottenere dall'insieme. Migliorando una funzione ne peggiorerai delle altre, magari tutte, ma in ogni caso non sarai più efficiente di chi si tiene in bilancia con attenzione.
Ogni carattere di un individuo, ottimizzando la propria espressione, limita l’ottimizzazione dell’espressione degli altri caratteri, e ne viene a sua volta limitato. Potrei chiamarla aurea mediocritas, ma preferisco parlare di ciotole adattative perché mi pare che il termine “ciotola” renda visivamente il concetto.
Ciotole adattative, dunque.
Una volta ottenuto il compromesso fenotipicamente funzionale, sei sul fondo della ciotola, e da lì non ti puoi muovere. Ricordiamo, non puoi migliorare niente senza peggiorare qualcosa d’altro (di solito). Ogni tentativo di scalata fino al bordo della ciotola in una direzione implica una forza nella direzione opposta che ti fa rotolare di nuovo sul fondo. Solo sul fondo i tuoi alleli collaborano nella maniera ottimale per produrre copie di se stessi, e quindi, di fatto, per mantenerti sul fondo.
 Per uscire dalla ciotola dovresti scalarla contemporaneamente in tutte le direzioni, e stiamo parlando di una serie di mutazioni contemporanee e tutte compatibili (il che è virtualmente impossibile), o di una macromutazione che sconvolga tutto e riordini così radicalmente gli equilibri da farti uscire con un solo balzo (le macromutazioni sono seconde solo al catastrofismo, come bestemmia evoluzionistica, e comunque io le ritengo così singolarmente improbabili da non prenderle neppure in considerazione).

In buona sostanza, gli organismi rimangono uguali a se stessi per lunghi periodi di tempo perchè qualunque mutazione che comporti effetti fenotipici viene abrogata, per referendum, da tutta la comunità degli altri geni.
La differenza fra i picchi adattativi separati dalle valli e la mia tavolata di ciotole consiste essenzialmente nel fatto che i picchi sono un paesaggio ecologico, le ciotole sono un paesaggio allelico. Wright implica (nei due sensi del termine) una variabilità allelica che si possa muovere nella stessa direzione del picco, in risposta ad un ambiente esterno che viene inteso come separato e diverso dall’ambiente interno del pool genico. Una visione della specie in lotta contro il mondo e le altre specie.
Le mie ciotole raccontano una storia diversa. Raccontano di alleli ciechi e interdipendenti, che hanno trovato un improbabile equilibrio fra loro. Raccontano dell’estrema difficoltà che ventimila alla quinta (o giù di lì) alleli possano trovare una combinazione/frequenza alternativa che consenta al fenotipo di spostarsi in una direzione sola, quella verso cui si dirige la tartaruga, e funzionare lo stesso. Raccontano di lunghissime sequenze di tempo in cui i fossili di una linea filetica rimangono centrati sul fondo della ciotola, come un governo retto da un parlamento composto da due soli partiti in perfetta parità, dove ogni proposta dell’uno viene bocciata dall’altro. Qualche leggina ininfluente verrà approvata, qualche cambiamento, magari reversibile, avverrà, ma niente di radicale, niente di graduale. Raccontano di un cuscinetto a sfera che, per quanto tu scuota la ciotola, per quanto l’ambiente la faccia oscillare col dito, tornerà sempre sul fondo.
Io non credo che le popolazioni possano, di solito, inseguire i mutamenti del contesto. Credo che debbano rimanere fedeli all’improbabile coalizione dei propri geni e alleli, a costo di estinguersi.
Eppure, spesso d’improvviso, dopo lunghissime stasi, speciano, di botto.

Ma allora, come avvengono le speciazioni? Alla prossima puntata, sono stato fin troppo prolisso, per oggi.
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martedì 29 marzo 2011

Grande e piccolo

Partiamo con Calimero, il pulcino della pubblicità. (Mi rendo conto che Carosello mi data con ben maggiore precisione del carbonio 14, non crediate, ma tant'è). Calimero, piccolo e nero, e un marziano a cui dobbiamo spiegare il significato dei due aggettivi.

"Nero" non è difficile. Noi umani definiamo "nero" ciò che assorbe le frequenze elettromagnetiche nell'ambito del visibile, cioè quell'ambito che i nostri recettori ottici sono in grado di percepire, cioè ancora tutto ciò che assorbe le frequenze fra i 380 e i 760 nm. Una volta trovato l'accordo sulla formula di trasformazione delle reciproche unità di misura (terrestri e marziane), la definizione è inequivocabile, e non dipende da alcun criterio soggettivo. "Nero", per un umano, è solo quella cosa lì.

Diverso è il discorso per piccolo. La definizione di "piccolo" dipende dalla categoria e dipende dal riferimento.

Partiamo dalla categoria, quella che mi interessa di meno. Il piccolo Calimero è un _pulcino_ piccolo, è una _gallina_ piccola, è un _vertebrato_ piccolo?
Per fare un altro esempio, una migale è un artropode grande o un animale piccolo? Credo che se venisse a farmi visita in stanza da letto io la troverei enorme, parere probabilmente non condiviso da uno studioso di macromammiferi meno aracnofobo di me.
Una Barbie di un metro è una bambola grande o un manichino piccolo? Nel caso del nero esiste una categoria oggettiva, nel caso della Barbie la categoria è soggettiva. Per essere più chiaro, chiunque sapesse dell'esistenza delle bambole, ma non di quella dei manichini, vedrebbe la Barbie come una bambola grande, e viceversa. Bambola o manichino, ragno grande o animale piccolo. Sono concetti influenzati dalla categoria in cui mettiamo gli oggetti, e quindi, in ultima analisi, dalla cultura.

Ma non era questo il punto. Il bello è il termine di riferimento. Nero è nero rispetto al blu, per dire. Ma piccolo è piccolo rispetto a cosa?
Moltissimi mammiferi sono piccoli. Gli insetti sono ancora più piccoli. Le amebe sono piccolissime. E non parliamo neppure dei batteri (non esiste, credo, il superlativo di piccolissimo).
La maggior parte dei mammiferi, la stragrande maggioranza dei mammiferi, non supera il chilo di peso. E sono piccoli.
La stragrande maggioranza degli animali non supera il grammo di peso. E sono piccoli.
La stragrande maggioranza degli esseri viventi, sia come numero di individui, sia come biomassa, sia, probabilmente, come numero di specie, se si può parlare di specie in questo caso, (e, incidentalmente, costituente anche una discreta percentuale del mio peso corporeo), sono batteri. Incredibilmente piccoli.
E Calimero è piccolo.
"Certo, ho capito", dice il marziano sollevando verso la mia spropositata altezza i suoi peduncoli oculari "ma non mi hai ancora detto _rispetto a cosa_ sono piccoli".
Rispetto a cosa?
Rispetto a noi umani, naturalmente. E' questo il metro di riferimento, ovvio come è ovvio che la Terra è al centro dell'universo, e il Sole le gira attorno.
Antropocentrici, ecco cosa siamo.

Bene, chiarito, spero, il punto che sono solo alcuni Phyla relativamente poveri di specie e di individui, primo fra i quali quello dei vertebrati, ad essere l'eccezione, e che per definire grande e piccolo non ci si dovrebbe basare, come metro, sull'eccezione, passiamo a considerare il perchè quasi tutti i viventi sono piccoli rispetto a noi.

Io un'idea ce l'avrei.

Per un uomo un metro di superficie piana si risolve in un passo lungo. Per una formica in, diciamo, cinquecento passi. Per un acaro in qualche migliaio.
Ma un metro, si potrebbe pensare, rimane un metro. Fanno più passi perchè i loro passi sono più brevi, tutto qui. E' una questione di scala.
Sì, certo, è anche una questione di scala, ma non solo.

E' il momento di fare un breve digressione, e introdurre il concetto di frattale (come se io l'avessi capito...Ma Wiki aiuta). Beh, in soldoni un frattale è un oggetto geometrico uguale a se stesso a qualunque scala. Tu lo guardi ed è così, ne prendi un pezzetto, l'un per cento, lo ingrandisci cento volte ed è uguale a quello di prima, e così via, teoricamente all'infinito. Pare che Mandelbrot abbia intuito l'idea di frattale vedendo un tentativo di misurazione delle coste dell'Inghilterra a scale diverse. La lunghezza della costa dipende dalla scala alla quale avviene la misurazione. In pratica, passando da 1/10.000 a 1/100 la lunghezza della costa inglese _aumenta_. Aumenta dimostrabilmente, aumenta davvero. Quella che prima, a scala 1/10.000, era una baia, diventa una sequenza di sporgenze e rientranze, misurabili, in scala 1/100. E in scala 1/1 le sporgenze sono composte da pietre, magari frastagliate.
La superficie terrestre non è frattale, non esattamente. Però entro certi limiti di scala (che finiscono parecchio prima di arrivare ad atomi e molecole) assomiglia parecchio ad un frattale. E spero di non dire una sciocchezza esagerata aggiungendo "ad un frattale aleatorio", ma questo non è rilevante, ora.

Torniamo allora all'uomo che attraversa la strada camminando a lunghi passi. Diciamo cinque passi, cinque metri. Un uomo cammina sull'asfalto come se fosse vetro, una formica deve fare su e giù fra i sassolini di basalto incastrati nel bitume, un acaro si trova nelle bad-lands, un'ameba traversa migliaia di volte il gran canyon (perchè un'ameba attraversa la strada? Ah no, era la gallina, quella...) Non stiamo più parlando di un metro di percorso, stiamo parlando di decine, centinaia, migliaia di metri racchiusi in quel metro, a seconda della grandezza dell'organismo che lo percorre e dell'irregolarità della superficie. 0 guardiamo invece un prato. Noi, il capriolo, il cane, lo attraversiamo come fosse una strada, ma quanto è maggiore la distanza da un capo all'altro per qualcosa lungo due millimetri che sale e scende per i fili d'erba? E la superficie? Un ettaro di prato per noi, quanti ettari, quante centinaia, migliaia di ettari di superficie sono per un afide?
Dieci chilometri in Pianura Padana, sulla mappa, sono proprio uguali a dieci chilometri sulle Alpi. E, per un gigante che facesse dieci chilometri ad ogni passo, sarebbero uguali anche nella realtà. Per un uomo, però, il passo del gigante in pianura equivale a diecimila metri, quello del gigante sulle Alpi equivale a tredici, quattordicimila metri.

Ma usciamo da Flatlandia, mettiamoci la terza dimensione, e le cose si fanno ancora più interessanti. Un metro quadro di sabbia sul bagnasciuga, ad esempio. Per un uomo è un metro quadro, punto. Per un esserino di mezzo millimetro di diametro, che strisci sulla pellicola d'acqua che riveste i granelli di sabbia, diciamo fino a trenta centimetri di profondità, quel metro quadro diventa duecento, duecentocinquanta metri quadri di superficie strisciabile. E non sto parlando di questioni di scala, sto parlando di superficie effettiva, reale, esistente.

Il punto è questo: quanto più piccolo sei, tanto è oggettivamente, misurabilmente, realmente più grande il mondo in cui vivi. Quanto, più grande, dipende dall'irregolarità del terreno, ma neppure i vetri sono lisci a tutte le scale, come dire. Il che è un modo come un altro per dire che, pur vivendo sullo stesso pianeta, gli uomini hanno a disposizione la Terra, gli acari qualcosa come Giove. Vivono su un mondo che è davvero più grande.

L'apparente tendenza all'aumento di dimensioni e/o di complessità che possiamo vedere nei record fossili è adeguatamente spiegata (esemplificata) dal cespuglio di Gould. Se un cespuglio cresce vicino ad un muro, i suoi rami si svilupperanno solo lungo il muro o nella direzione opposta, essendo il muro una barriera, un fattore limitante. E' un modo efficace per visualizzare l'esistenza di un limite minimo alla semplificazione di un organismo, mentre invece non esiste un limite massimo alla sua complessità. Non si può essere più semplici di un batterio, ma si può essere più complessi di una balena. Perciò l'apparente tendenza ad una maggiore complessità è solo apparente, appunto, ed è essenzialmente una conseguenza logica dell'esistenza del limite minimo.
La rappresentazione delle dimensioni degli organismi/numero di specie si può visualizzare come una curva a campana fortemente asimmetrica. Dal punto più alto, molto vicino al limite minimo di complessità, la curva crolla bruscamente a zero a sinistra, nella direzione del limite, mentre nell'altra direzione prosegue, anche indefinitamente in teoria, ma sempre più tendente allo zero. Ma appunto l'apice della curva a campana è vicino al limite minimo, organismi piccoli, in gran numero. Se il vantaggio risiedesse nella maggiore dimensione la curva sarebbe asimmetrica nell'altra direzione.

Ma perchè? Perchè è più vantaggioso vivere in un mondo grande piuttosto che in uno piccolo? Beh, un mondo più grande supporta più habitat, più specie e più individui per specie. In altri termini, sistemi ecologici più complessi e resilienti, organismi più specializzati, risorse meglio sfruttate. Esiste, ad esempio, un rapporto diretto fra la superficie di un'isola e il numero di specie che ospita, a parità di altre condizioni, ovviamente. Se non sbaglio, deve esserci una ricerca fatta alle Antille con una curva superficie/numero di specie che è così carina da sembrare inventata. E gli esperimenti di sterilizzazione di alcune isolette in Florida hanno dimostrato che il numero di specie che successivamente le ricolonizzavano rimaneva simile al precedente (anche se non si trattava necessariamente delle stesse specie). E non mi riesce di farmi venire in mente una sola specie che, importata da una piccola isola, abbia creato danni su un continente, mentre ci sono, come dire, alcuni esempi del contrario.

Le specie più piccole sono più numerose, come è lecito attendersi, visto che vivono in un mondo più grande di quello delle specie grandi.

Va notato, però, che questo vale solo per l'interfaccia suolo/aria e suolo/acqua.
L'aria non è similfrattale, e per di più pone altri problemi. Noi ci siamo evoluti primariamente in mare, l'ambiente marino ce lo portiamo dentro, e l'acqua pesa più dell'aria. Perciò per volare nell'aria libera i limiti sono diversi, le caratteristiche non sono analoghe a quelle richieste per strisciare o zampettare.

E neppure il mare aperto è similfrattale. Non ha il problema dell'aria, quindi direi che in mare aperto i giochi sono liberi, o almeno le regole sono altre (non sto glissando su questo punto. E' solo che merita un post a parte, è un argomento interessante di suo).

Ma nello strato limite, lì i piccoli ci hanno fregato. Ci hanno fregato il mondo enorme, e anche quello grande. I batteri hanno occupato i latifondi, gli organismi monocellulari le tenute, i pluricellulari la soffitta, e noi vertebrati siamo confinati nel sottoscala.
Per dire, io non credo che gli insetti abbiano un limite dimensionale determinato dal loro apparato respiratorio, ma, al contrario, penso che non abbiano avuto incentivi evoluzionistici di sviluppare modi più efficienti di respirazione visto che il solo risultato sarebbe stato quello di rimpicciolire il loro mondo (in altri termini, il bauplan degli insetti è adatto ad un mondo che ha innegabili vantaggi rispetto al nostro). Lo hanno lasciato a noi, il compito di trovare il modo di ossigenare un corpaccione, dato che loro hanno scelto per primi.

Ancora di più, e tanto per esagerare, io penso che le dimensioni da considerare, in un organismo mobile, non siano quelle complessive, bensì la sezione perpendicolare a quella del suo movimento. Per fare un esempio, agli effetti della grandezza del suo mondo un lombrico non è il suo volume, ma l'area della sua sezione trasversale. Come si dice, dove passa la testa passa anche il resto. E il resto, che sta dietro a rimorchio, e che non influisce sull'ampiezza della superficie strisciabile, sulla grandezza del suo mondo, quella parte può essere usata per stiparci organi di tutti i tipi. (Ovviamente non esistono lombrichi di cento metri di lunghezza e di un centimetro di diametro, ma questo esula dal mio ragionamento, e tira in ballo limiti metabolici e di altro genere. Parlando dell'area della sezione trasversale come elemento da considerare, ne parlo solo in riferimento alla grandezza del mondo, tralasciando le altre considerazioni, che pure ci sono). Comunque questo, io penso, potrebbe essere il motivo per cui la forma a verme è così diffusa in così tanti cladi diversi. Una convergenza adattativa per ingrandire il mondo. Sì, mi rendo conto che l'aumento dei metameri, almeno negli organismi che li hanno, è un meccanismo genetico relativamente semplice e che conduce inevitabilmente all'allungamento. Ma la duplicazione di un gene hox spiega solo il modo in cui avviene, non il vantaggio che ne consegue.

Le specie egoiste

Questo blog inizia in maniera insolita, con un pezzo scritto a quattro mani con Tupaia e già pubblicato tempo fa sul blog L'orologiaio miope, in occasione del carnevale della biodiversità (http://www.lorologiaiomiope.com/le-specie-egoiste/). Una scelta che però ha un motivo. L'idea di base di questo post mi servirà, più avanti, come punto di partenza per un paio di sviluppi, inerenti all'origine del sesso e ai meccanismi di speciazione simpatrici, e non vedevo motivo di riscriverlo. Quindi eccolo qui.


La competizione per il cibo e lo spazio viene vista, solitamente, come una lotta fra specie diverse. Cosi’ Darwin descrive la competizione tra specie, rappresentate dai cunei:
"La Natura puo’ essere comparata a una superficie cedevole fatta di diecimila cunei acuminati gli uni vicini agli altri e spinti all’interno da colpi incessanti, a volte un cuneo viene colpito, quindi un altro con ancora piu’ forza" [L'origine delle specie, Capitolo III, 1859].In realtà, i cunei sono alcuni milioni, e ogni volta che ne batti uno più forte, un altro salta fuori. E’ una bella similitudine e rappresenta abbastanza bene la lotta tra le specie per "la minima quantita’ di cibo richiesta da ogni essere vivente". Una specie viene portata all’estinzione da un’altra, e questo e’ quel che vediamo, ed e’ anche una buona rappresentazione.

A nostro avviso pero’ le cose funzionano cosi’ solo al nostro livello primario di percezione. Noi siamo abituati a pensare in termini di eserciti che conquistano, o che vengono sconfitti, e cosi’ vediamo le varie specie in conflitto nello stesso modo. Specie in lotta fra loro. E’ una rappresentazione utile secondo alcuni angoli visuali, ci fa comprendere più facilmente alcuni meccanismi, esattamente come i concetti dell’economia umana ci fanno comprendere meglio l’ecologia. Tuttavia l’economia umana implica una scelta volontaria, cosciente, che non esiste nei sistemi ecologici. E’ un’analogia, una buona analogia, a patto di ricordarsi che non è più di questo. E così è per la competizione fra specie diverse. Una buona analogia, che aiuta a comprendere, ma non più di questo.

C’era una vecchia barzelletta, due escursionisti che, dall’altra parte della valle, vedono un orso che corre verso di loro. Uno dei due comincia a scappare, l’altro si ferma, tira fuori le scarpe da ginnastica dallo zaino e se le mette. Il primo si volta e, sorpreso, dice: "Ma credi di correre piu’ veloce dell’orso, con quelle?" "No", risponde l’altro, "e neppure mi serve. Mi basta di correre piu’ veloce di te". Il punto cruciale di questa storiella e’: chi e’ che lotta? A che livello avviene la competizione? La parola "competizione" e’ in realta’ fuorviante. Implica, come l’economia, un atto volontario. Sarebbe piu’ corretto parlare di "prevalenza". Se usiamo questo termine ci rendiamo conto che i leoni non "prevalgono" sulle iene, e neanche sulle gazzelle. Quello che realmente succede è che, all’interno di una popolazione, alcuni individui si riproducono più di altri, e che quindi alcuni alleli aumentino la loro frequenza nella generazione successiva. Cio’ che prevale alla fine dei conti sono delle buone combinazioni genetiche di un individuo "vincenti" su analoghe combinazioni di alleli di un altro individuo. Se scendiamo a livello di alleli e di combinazioni di alleli non possiamo fare altro che compararle all’interno della stessa specie, poiche’ specie diverse avranno geni differenti, i cui alleli non possono competere fra loro per aumentare la frequenza nella popolazione. E’ sicuramente un’ottica riduzionista, tanto quanto la teoria dei geni egoisti di Richard Dawkins, perche’ presuppone che tutto, ma proprio tutto, alla fine si riduca alla chimica del DNA. Ma e’ un punto di vista che funziona, che chiarisce degli aspetti, per quanto ci dia fastidio.

Puo’ sicuramente accadere che buone combinazioni alleliche, che sono state trasmesse per molto tempo alle generazioni successive, ad un certo punto non siano piu’ adatte e l’individuo muoia e con esso la specie. Dal punto di vista dei geni questo e’ irrilevante, sono programmati per copiarsi, per prevalere su analoghe combinazioni cromosomiche, e’ tutto quello che sanno fare, e non c’e’ modo di riprogrammarli se cambiano le condizioni al contorno. Cerchiamo di chiarirci: la sopravvivenza e’ certamente un fattore utile al sucesso riproduttivo, per via che da morti ci si riproduce pochino davvero. Quindi puo’ sembrare che ci sia competizione fra, diciamo, leoni e jene per lo stesso spazio e le stesse risorse. Ma in realta’ sono i leoni che competono fra loro, e il piu’ lento muore di fame. E sono le jene che competono fra loro, e la piu’ lenta viene sottomessa e non si riproduce. Le gazzelle lente vengono mangiate da entrambi, ma quelle con le scarpe da ginnastica trasmetteranno i loro geni alla progenie.

Ci sono limiti e costi, bauplan, ontogenesi e limiti abiotici. Non sapremmo dire se la piu’ veloce delle gazzelle, per come e’ organizzata, possa correre piu’ in fretta del piu’ veloce dei ghepardi. Ma sappiamo che non le serve, visto che il ghepardo mangera’ quella un po’ piu’ lenta. E la piu’ veloce si riprodurra’ e anche il ghepardo, in questo modo selezionando certi geni e quindi in un certo modo "modellando" la specie in base alle circostanze. Ma alla fine i conti li fanno le gazzelle tra di loro e il ghepardo e’ solo una condizione al contorno, un fattore ambientale tanto quanto la temperatura, la resistenza alla sete o la presenza di bufali.

Facciamo un altro esempio: gli insetti. Quando il cibo abbonda un mucchio di specie si danno alla partenogenesi. Salvo qualche ricombinazione qua e la’, la composizione allelica della progenie e’ la stessa. E perche’ no? E’ un set di geni che dimostrabilmente funziona, e l’abbondanza delle risorse annulla la competizione intraspecifica. Pero’ appena le risorse scarseggiano si torna alla riproduzione sessuata, che rimescola le carte degli alleli alla ricerca del figlio che si riproduce più degli altri. Può essere, e di solito è, che sia il più adatto all’ambiente contingente, ma non è necessario. Può essere il meno adatto ma il più attraente, per via di adattamenti pregressi che non funzionano nella attuale contingenza.

Cambiamo punto di visuale e per una volta vediamola alla rovescia. L’adattamento è una conseguenza casuale della prevalenza di un allele, o di un insieme di alleli, su un altro. Gli alleli sono ciechi, e se anche vedessero non vedrebbero il futuro. Si duplicano oppure no. Tutto qui, in funzione di circostanze esterne, che non sono sotto il loro controllo, che non possono vedere, nè tantomeno prevedere. Il che significa, sostanzialmente, che la competizione e’ intraspecifica: se tutti i biglietti della lotteria vincono il premio, perche’ dovrei cambiare il numero? Ma nel momento in cui il fattore che decide la vincita e’ la limitazione dei premi e la fortuna di imbroccare il numero giusto, allora mi conviene avere piu’ numeri possibile. Perche’? Perche’ competo con altra gente, della mia specie, che vuole vincerla, quella lotteria. C’era competizione fra il dodo e i portoghesi? E c’era competizione fra i dinosauri e il meteorite? E dov’è esattamente la differenza fra un portoghese e un meteorite, dal punto di vista di un allele cieco?

Ci sono molti studi condotti in laboratorio su cosa e’ piu’ determinante per il tale coleottero, vongola o albero, se la competizione intraspecifica o interspecifica. Molti di questi studi hanno risultati variabili e fortemente influenzati dalle condizioni sperimentali, e il nostro modesto punto di vista e’ che quegli autori stessero guardando il panorama da un punto di vista falsato. L’apparente competizione interspecifica, se porta all’estinzione, dice solo che la competizione intraspecifica ha portato alla vittoria un insieme di alleli casualmente non adatti ad un ambiente casuale. Noi diremmo, per concludere, che in ogni popolazione le combinazioni alleliche degli individui competono per il cibo e lo spazio, e quindi per la possibilità di riprodursi, in un determinato contesto imprevedibile o imprevedibilmente influenzabile. E questo sarebbe un argomento da sviluppare.