lunedì 11 aprile 2011

Ciotole

Ciotole adattative

La speciazione, l'origine di una nuova specie, almeno prima che S.J.Gould puntasse il dito su dati già noti ma un po' snobbati, era vista perlopiù come un evento gradualistico. Diciamo che l'esempio standard, introiettato quasi a livello subliminale, era quello del cavallo. Da Hyracotherium, 40 centimetri di altezza e quattro dita, a Mesohippus, tre dita e 60 centimetri, a Merychippus, sempre tre dita ma un metro, a Pliohippus, uno e venticinque e un dito solo, a, finalmente, Equus, col suo bel metro e sessanta e il ditone. Una sequenza graduale durata cinquanta milioni di anni, durante la quale la stessa linea evolutiva si perfeziona man mano, come un frassino che cresca nel fitto, con qualche rametto qui e là, ammettiamolo, ma il tronco dritto come una sarissa macedone, con Hyracotherium alla base e Equus facente funzione di gemma apicale.

Ma la natura birbona, sotto forma di evidenze paleontologiche innegabili, ha portato a modificare leggermente il punto di vista. Voglio dire, io non sono un fanatico degli anelli mancanti (per ogni anello mancante trovato se ne creano due adiacenti, e non si può certo pretendere una perfetta e puntuale continuità nei record fossili). Il fatto pero' che la specie successiva compaia quasi sempre di punto in bianco, già bella e definita, qualche dubbio lo lascia.
Perciò si è optato (Mayr, se non sbaglio) per una soluzione più adeguata ai fatti osservati. La versione modificata dice che la popolazione originaria si è trovata ad essere divisa in due da qualche evento (perlopiù geologico). In seguito alla separazione fisica una delle due popolazioni è gradualmente cambiata, vuoi per deriva genetica vuoi per adattamento ad un ambiente diverso (abitualmente, e dispettosamente, senza lasciare fossili). Ad un certo punto poi il limite fisico/geografico è scomparso e le due popolazioni si sono riunite, ma ormai erano troppo diverse per essere interfeconde. In pratica, sono diventate due specie diverse.
 Gradualismo, pur sempre gradualismo, ma condito da un episodio di allopatria.

Lo so, lo so, sto creando un semplicistico fantoccio di paglia per poi infilarci quante frecce voglio. In realtà sono molti i modi di speciazione che vengono presi in considerazione, e non tutti sono gradualistici. Ad esempio la speciazione per ibridazione o quella per poliploidia possono avvenire anche nel lasso una sola generazione, e quindi tutt'altro che gradualmente. E lo stesso Dawkins, che propende per il gradualismo, sottolinea però che è da intendere in senso geologico, a bassa risoluzione, come dire. Per usare il suo esempio, il fatto che l'esodo degli ebrei dall'Egitto alla Palestina sia durato quarant'anni non significa che gli ebrei spostassero le tende di (boh, non ricordo) cinque centimetri al giorno. Possono essersi fermati tre mesi in un posto, e poi cinque anni in un altro, e così via. Sempre gradualismo, certo, ma in versione più moderata.

Il punto è, però, che in assenza di forti evidenze che, caso per caso, lo neghino, il modello gradualistico (in allopatria o in simpatria) è considerato come assodato, nè viene in mente di discuterlo. E' qualcosa di sottinteso, come il colore di un mandarino, che viene specificato solo se non è arancione. In questo (non solo, ma anche) contesto Wright propone il concetto di Wright di paesaggio adattativo e di picchi adattativi.

Wright ha visualizzato il processo evolutivo come un paesaggio formato da picchi separati da valli, più o meno profonde. Sul colmo di ogni picco la fitness media (di una popolazione, di una specie, di un qualunque clade) è alta, mentre scendendo nella valle essa diminuisce. E' solo una rappresentazione visiva, ovviamente, ma piuttosto suggestiva.
Ora, i picchi si muovono. Si muovono nel senso che essi rappresentano l’ambiente, il contesto in cui una parte della popolazione ha fitness maggiore di un’altra, e l’ambiente, il contesto, si modificano nel tempo.
La conseguenza è che la parte di popolazione che stava su quella che prima era la vetta adesso si trova un po' più a valle, e gli individui ora in vetta acquisiscono maggiore fitness. Quindi la specie (la popolazione) evolve.
Immaginiamoci una tartaruga sotto un lenzuolo, e una popolazione di esserini che vive sopra il lenzuolo. Chi si trova ad essere proprio in corrispondenza del colmo del dorso della tartaruga farà più figli degli altri. Ma la tartaruga cammina, piano piano, sollevando gli individui che prima erano un po’ più a valle e lasciando indietro quelli che prima erano in vetta. Ora sono altri, quelli che fanno più figli, e magari sono un pochino diversi dai precedenti.

Visto che la fitness è maggiore sulle vette e minore nelle valli, niente può passare da una vetta all'altra. Infatti qualunque linea filetica che si avventurasse nella traversata dovrebbe spingersi verso valle, e quindi avrebbe  meno discendenti sia della popolazione della vetta di partenza sia di quella della vetta d'arrivo, cioè, in altri termini, gli alleli per andare verso valle non potrebbero diffondersi nella popolazione.
Spostarsi verso valle costa in termini di fitness, rimanere sulla vetta paga in termini di fitness. L'unica cosa possibile è seguire il graduale spostarsi del picco, oppure estinguersi. Di nuovo il gradualismo, implicito e inevitabile.

(Verrebbe da chiedersi il perchè di questa entusiastica preferenza per il gradualismo. Il motivo è essenzialmente storico, ed emblematico dell'inerzia che pervade, spesso a livello inconscio, il pensiero scientifico, anche a dispetto dei dati. Prima di Darwin prevaleva il cosiddetto catastrofismo, sintetizzabile in una serie di diluvi universali e successive creazioni divine ex novo. Questo perchè i dati paleontologici cominciavano a presentare evidenze troppo contrastanti con l'ipotesi di un'unica creazione, e in qualche modo si doveva pure sfangarsela. Fu un mentore di Darwin, un geologo, Lyell, a concepire il gradualismo per spiegare determinate formazioni geologiche, e Darwin lo incorporò nella sua teoria. Da allora in poi il catastrofismo è diventato una specie di bestemmia in campo evolutivo, all'inizio con buone ragioni, in seguito come preconcetto spesso nemmeno coscientemente percepito. Ad esempio di ciò basti ricordare come, anche in tempi recenti, il mondo scientifico ha accolto la teoria degli Alvarez (estinzione dei dinosauri causa meteorite = catastrofismo): anche a fronte di dati verosimili e verificabili, la plausibilità, almeno in un primo momento, è dovuta soccombere all'indignazione. Nessuno ha gridato "Sacrilegio!", ma il tono era quello. Sfortunatamente la scienza è fatta dagli uomini, ma fortunatamente è un metodo e non un dogma, quindi adesso la teoria è generalmente accettata.)

Bene, a me non piacciono i picchi adattativi. Non mi piace il concetto. Con questo non voglio negare la possibilità di un adattamento graduale, da parte di una popolazione, ad un mutare graduale delle condizioni di contorno, ad una passeggiata della tartaruga sotto il lenzuolo. E’ possibile, certo. Ma, secondo me, come caso particolare, come eccezione, non come regola. La regola, per come la vedo io, è esemplificata dal concetto, piuttosto, di ciotola adattativa, che introdurrò più sotto.

Come Gould ha fatto notare (non necessariamente scoperto, perchè in molti casi erano dati già noti) le specie tendono a rimanere all'incirca uguali a se stesse per lunghi, anche lunghissimi periodi di tempo, per poi cambiare improvvisamente. Ha riportato anche esempi da manuale, serie praticamente continue nel tempo in giacimenti insoliti ma persuasivi, a sostegno di quella che lui ha chiamato la teoria degli equilibri punteggiati. Con tutta la stima che ho per Gould, non concordo affatto con le conclusioni ultime che lui ha tratto da questi dati, ma i dati stessi sono innegabili. E dicono che il gradualismo è semmai l'eccezione, non certo la regola. Nè mi pare un fatto sorprendente.

Mi rifarei qui all'ultima frase del post "Le specie egoiste". Gli alleli all'interno di una popolazione sono in competizione fra loro, e perciò le frequenze alleliche mutano, o meglio fluttuano, nel tempo. Ma l'ambiente primario che determina il successo o l'insuccesso di un allele sono gli alleli degli altri geni. Per fare un esempio stupido, se il tuo metabolismo è più veloce resisterai meglio al freddo, ma dovrai mangiare di più, il che implica maggior tempo esposto a predazione. Se i tuoi muscoli rispondono in modo eccezionale allo scatto breve, ne soffrirà il sistema circolatorio e si allungheranno i tempi di recupero. Se aumenti il numero di uova per covata il tuo metabolismo del calcio ne soffrirà, così come anche aumenterà il tempo di foraggiamento a nido incustodito. Sono esempi semplicistici, ma quello che intendo è che ogni carattere fenotipico di un individuo è un compromesso con tutti gli altri, una via di mezzo non ottimale per nessuno dei caratteri, ma il meglio che si possa ottenere dall'insieme. Migliorando una funzione ne peggiorerai delle altre, magari tutte, ma in ogni caso non sarai più efficiente di chi si tiene in bilancia con attenzione.
Ogni carattere di un individuo, ottimizzando la propria espressione, limita l’ottimizzazione dell’espressione degli altri caratteri, e ne viene a sua volta limitato. Potrei chiamarla aurea mediocritas, ma preferisco parlare di ciotole adattative perché mi pare che il termine “ciotola” renda visivamente il concetto.
Ciotole adattative, dunque.
Una volta ottenuto il compromesso fenotipicamente funzionale, sei sul fondo della ciotola, e da lì non ti puoi muovere. Ricordiamo, non puoi migliorare niente senza peggiorare qualcosa d’altro (di solito). Ogni tentativo di scalata fino al bordo della ciotola in una direzione implica una forza nella direzione opposta che ti fa rotolare di nuovo sul fondo. Solo sul fondo i tuoi alleli collaborano nella maniera ottimale per produrre copie di se stessi, e quindi, di fatto, per mantenerti sul fondo.
 Per uscire dalla ciotola dovresti scalarla contemporaneamente in tutte le direzioni, e stiamo parlando di una serie di mutazioni contemporanee e tutte compatibili (il che è virtualmente impossibile), o di una macromutazione che sconvolga tutto e riordini così radicalmente gli equilibri da farti uscire con un solo balzo (le macromutazioni sono seconde solo al catastrofismo, come bestemmia evoluzionistica, e comunque io le ritengo così singolarmente improbabili da non prenderle neppure in considerazione).

In buona sostanza, gli organismi rimangono uguali a se stessi per lunghi periodi di tempo perchè qualunque mutazione che comporti effetti fenotipici viene abrogata, per referendum, da tutta la comunità degli altri geni.
La differenza fra i picchi adattativi separati dalle valli e la mia tavolata di ciotole consiste essenzialmente nel fatto che i picchi sono un paesaggio ecologico, le ciotole sono un paesaggio allelico. Wright implica (nei due sensi del termine) una variabilità allelica che si possa muovere nella stessa direzione del picco, in risposta ad un ambiente esterno che viene inteso come separato e diverso dall’ambiente interno del pool genico. Una visione della specie in lotta contro il mondo e le altre specie.
Le mie ciotole raccontano una storia diversa. Raccontano di alleli ciechi e interdipendenti, che hanno trovato un improbabile equilibrio fra loro. Raccontano dell’estrema difficoltà che ventimila alla quinta (o giù di lì) alleli possano trovare una combinazione/frequenza alternativa che consenta al fenotipo di spostarsi in una direzione sola, quella verso cui si dirige la tartaruga, e funzionare lo stesso. Raccontano di lunghissime sequenze di tempo in cui i fossili di una linea filetica rimangono centrati sul fondo della ciotola, come un governo retto da un parlamento composto da due soli partiti in perfetta parità, dove ogni proposta dell’uno viene bocciata dall’altro. Qualche leggina ininfluente verrà approvata, qualche cambiamento, magari reversibile, avverrà, ma niente di radicale, niente di graduale. Raccontano di un cuscinetto a sfera che, per quanto tu scuota la ciotola, per quanto l’ambiente la faccia oscillare col dito, tornerà sempre sul fondo.
Io non credo che le popolazioni possano, di solito, inseguire i mutamenti del contesto. Credo che debbano rimanere fedeli all’improbabile coalizione dei propri geni e alleli, a costo di estinguersi.
Eppure, spesso d’improvviso, dopo lunghissime stasi, speciano, di botto.

Ma allora, come avvengono le speciazioni? Alla prossima puntata, sono stato fin troppo prolisso, per oggi.
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martedì 29 marzo 2011

Grande e piccolo

Partiamo con Calimero, il pulcino della pubblicità. (Mi rendo conto che Carosello mi data con ben maggiore precisione del carbonio 14, non crediate, ma tant'è). Calimero, piccolo e nero, e un marziano a cui dobbiamo spiegare il significato dei due aggettivi.

"Nero" non è difficile. Noi umani definiamo "nero" ciò che assorbe le frequenze elettromagnetiche nell'ambito del visibile, cioè quell'ambito che i nostri recettori ottici sono in grado di percepire, cioè ancora tutto ciò che assorbe le frequenze fra i 380 e i 760 nm. Una volta trovato l'accordo sulla formula di trasformazione delle reciproche unità di misura (terrestri e marziane), la definizione è inequivocabile, e non dipende da alcun criterio soggettivo. "Nero", per un umano, è solo quella cosa lì.

Diverso è il discorso per piccolo. La definizione di "piccolo" dipende dalla categoria e dipende dal riferimento.

Partiamo dalla categoria, quella che mi interessa di meno. Il piccolo Calimero è un _pulcino_ piccolo, è una _gallina_ piccola, è un _vertebrato_ piccolo?
Per fare un altro esempio, una migale è un artropode grande o un animale piccolo? Credo che se venisse a farmi visita in stanza da letto io la troverei enorme, parere probabilmente non condiviso da uno studioso di macromammiferi meno aracnofobo di me.
Una Barbie di un metro è una bambola grande o un manichino piccolo? Nel caso del nero esiste una categoria oggettiva, nel caso della Barbie la categoria è soggettiva. Per essere più chiaro, chiunque sapesse dell'esistenza delle bambole, ma non di quella dei manichini, vedrebbe la Barbie come una bambola grande, e viceversa. Bambola o manichino, ragno grande o animale piccolo. Sono concetti influenzati dalla categoria in cui mettiamo gli oggetti, e quindi, in ultima analisi, dalla cultura.

Ma non era questo il punto. Il bello è il termine di riferimento. Nero è nero rispetto al blu, per dire. Ma piccolo è piccolo rispetto a cosa?
Moltissimi mammiferi sono piccoli. Gli insetti sono ancora più piccoli. Le amebe sono piccolissime. E non parliamo neppure dei batteri (non esiste, credo, il superlativo di piccolissimo).
La maggior parte dei mammiferi, la stragrande maggioranza dei mammiferi, non supera il chilo di peso. E sono piccoli.
La stragrande maggioranza degli animali non supera il grammo di peso. E sono piccoli.
La stragrande maggioranza degli esseri viventi, sia come numero di individui, sia come biomassa, sia, probabilmente, come numero di specie, se si può parlare di specie in questo caso, (e, incidentalmente, costituente anche una discreta percentuale del mio peso corporeo), sono batteri. Incredibilmente piccoli.
E Calimero è piccolo.
"Certo, ho capito", dice il marziano sollevando verso la mia spropositata altezza i suoi peduncoli oculari "ma non mi hai ancora detto _rispetto a cosa_ sono piccoli".
Rispetto a cosa?
Rispetto a noi umani, naturalmente. E' questo il metro di riferimento, ovvio come è ovvio che la Terra è al centro dell'universo, e il Sole le gira attorno.
Antropocentrici, ecco cosa siamo.

Bene, chiarito, spero, il punto che sono solo alcuni Phyla relativamente poveri di specie e di individui, primo fra i quali quello dei vertebrati, ad essere l'eccezione, e che per definire grande e piccolo non ci si dovrebbe basare, come metro, sull'eccezione, passiamo a considerare il perchè quasi tutti i viventi sono piccoli rispetto a noi.

Io un'idea ce l'avrei.

Per un uomo un metro di superficie piana si risolve in un passo lungo. Per una formica in, diciamo, cinquecento passi. Per un acaro in qualche migliaio.
Ma un metro, si potrebbe pensare, rimane un metro. Fanno più passi perchè i loro passi sono più brevi, tutto qui. E' una questione di scala.
Sì, certo, è anche una questione di scala, ma non solo.

E' il momento di fare un breve digressione, e introdurre il concetto di frattale (come se io l'avessi capito...Ma Wiki aiuta). Beh, in soldoni un frattale è un oggetto geometrico uguale a se stesso a qualunque scala. Tu lo guardi ed è così, ne prendi un pezzetto, l'un per cento, lo ingrandisci cento volte ed è uguale a quello di prima, e così via, teoricamente all'infinito. Pare che Mandelbrot abbia intuito l'idea di frattale vedendo un tentativo di misurazione delle coste dell'Inghilterra a scale diverse. La lunghezza della costa dipende dalla scala alla quale avviene la misurazione. In pratica, passando da 1/10.000 a 1/100 la lunghezza della costa inglese _aumenta_. Aumenta dimostrabilmente, aumenta davvero. Quella che prima, a scala 1/10.000, era una baia, diventa una sequenza di sporgenze e rientranze, misurabili, in scala 1/100. E in scala 1/1 le sporgenze sono composte da pietre, magari frastagliate.
La superficie terrestre non è frattale, non esattamente. Però entro certi limiti di scala (che finiscono parecchio prima di arrivare ad atomi e molecole) assomiglia parecchio ad un frattale. E spero di non dire una sciocchezza esagerata aggiungendo "ad un frattale aleatorio", ma questo non è rilevante, ora.

Torniamo allora all'uomo che attraversa la strada camminando a lunghi passi. Diciamo cinque passi, cinque metri. Un uomo cammina sull'asfalto come se fosse vetro, una formica deve fare su e giù fra i sassolini di basalto incastrati nel bitume, un acaro si trova nelle bad-lands, un'ameba traversa migliaia di volte il gran canyon (perchè un'ameba attraversa la strada? Ah no, era la gallina, quella...) Non stiamo più parlando di un metro di percorso, stiamo parlando di decine, centinaia, migliaia di metri racchiusi in quel metro, a seconda della grandezza dell'organismo che lo percorre e dell'irregolarità della superficie. 0 guardiamo invece un prato. Noi, il capriolo, il cane, lo attraversiamo come fosse una strada, ma quanto è maggiore la distanza da un capo all'altro per qualcosa lungo due millimetri che sale e scende per i fili d'erba? E la superficie? Un ettaro di prato per noi, quanti ettari, quante centinaia, migliaia di ettari di superficie sono per un afide?
Dieci chilometri in Pianura Padana, sulla mappa, sono proprio uguali a dieci chilometri sulle Alpi. E, per un gigante che facesse dieci chilometri ad ogni passo, sarebbero uguali anche nella realtà. Per un uomo, però, il passo del gigante in pianura equivale a diecimila metri, quello del gigante sulle Alpi equivale a tredici, quattordicimila metri.

Ma usciamo da Flatlandia, mettiamoci la terza dimensione, e le cose si fanno ancora più interessanti. Un metro quadro di sabbia sul bagnasciuga, ad esempio. Per un uomo è un metro quadro, punto. Per un esserino di mezzo millimetro di diametro, che strisci sulla pellicola d'acqua che riveste i granelli di sabbia, diciamo fino a trenta centimetri di profondità, quel metro quadro diventa duecento, duecentocinquanta metri quadri di superficie strisciabile. E non sto parlando di questioni di scala, sto parlando di superficie effettiva, reale, esistente.

Il punto è questo: quanto più piccolo sei, tanto è oggettivamente, misurabilmente, realmente più grande il mondo in cui vivi. Quanto, più grande, dipende dall'irregolarità del terreno, ma neppure i vetri sono lisci a tutte le scale, come dire. Il che è un modo come un altro per dire che, pur vivendo sullo stesso pianeta, gli uomini hanno a disposizione la Terra, gli acari qualcosa come Giove. Vivono su un mondo che è davvero più grande.

L'apparente tendenza all'aumento di dimensioni e/o di complessità che possiamo vedere nei record fossili è adeguatamente spiegata (esemplificata) dal cespuglio di Gould. Se un cespuglio cresce vicino ad un muro, i suoi rami si svilupperanno solo lungo il muro o nella direzione opposta, essendo il muro una barriera, un fattore limitante. E' un modo efficace per visualizzare l'esistenza di un limite minimo alla semplificazione di un organismo, mentre invece non esiste un limite massimo alla sua complessità. Non si può essere più semplici di un batterio, ma si può essere più complessi di una balena. Perciò l'apparente tendenza ad una maggiore complessità è solo apparente, appunto, ed è essenzialmente una conseguenza logica dell'esistenza del limite minimo.
La rappresentazione delle dimensioni degli organismi/numero di specie si può visualizzare come una curva a campana fortemente asimmetrica. Dal punto più alto, molto vicino al limite minimo di complessità, la curva crolla bruscamente a zero a sinistra, nella direzione del limite, mentre nell'altra direzione prosegue, anche indefinitamente in teoria, ma sempre più tendente allo zero. Ma appunto l'apice della curva a campana è vicino al limite minimo, organismi piccoli, in gran numero. Se il vantaggio risiedesse nella maggiore dimensione la curva sarebbe asimmetrica nell'altra direzione.

Ma perchè? Perchè è più vantaggioso vivere in un mondo grande piuttosto che in uno piccolo? Beh, un mondo più grande supporta più habitat, più specie e più individui per specie. In altri termini, sistemi ecologici più complessi e resilienti, organismi più specializzati, risorse meglio sfruttate. Esiste, ad esempio, un rapporto diretto fra la superficie di un'isola e il numero di specie che ospita, a parità di altre condizioni, ovviamente. Se non sbaglio, deve esserci una ricerca fatta alle Antille con una curva superficie/numero di specie che è così carina da sembrare inventata. E gli esperimenti di sterilizzazione di alcune isolette in Florida hanno dimostrato che il numero di specie che successivamente le ricolonizzavano rimaneva simile al precedente (anche se non si trattava necessariamente delle stesse specie). E non mi riesce di farmi venire in mente una sola specie che, importata da una piccola isola, abbia creato danni su un continente, mentre ci sono, come dire, alcuni esempi del contrario.

Le specie più piccole sono più numerose, come è lecito attendersi, visto che vivono in un mondo più grande di quello delle specie grandi.

Va notato, però, che questo vale solo per l'interfaccia suolo/aria e suolo/acqua.
L'aria non è similfrattale, e per di più pone altri problemi. Noi ci siamo evoluti primariamente in mare, l'ambiente marino ce lo portiamo dentro, e l'acqua pesa più dell'aria. Perciò per volare nell'aria libera i limiti sono diversi, le caratteristiche non sono analoghe a quelle richieste per strisciare o zampettare.

E neppure il mare aperto è similfrattale. Non ha il problema dell'aria, quindi direi che in mare aperto i giochi sono liberi, o almeno le regole sono altre (non sto glissando su questo punto. E' solo che merita un post a parte, è un argomento interessante di suo).

Ma nello strato limite, lì i piccoli ci hanno fregato. Ci hanno fregato il mondo enorme, e anche quello grande. I batteri hanno occupato i latifondi, gli organismi monocellulari le tenute, i pluricellulari la soffitta, e noi vertebrati siamo confinati nel sottoscala.
Per dire, io non credo che gli insetti abbiano un limite dimensionale determinato dal loro apparato respiratorio, ma, al contrario, penso che non abbiano avuto incentivi evoluzionistici di sviluppare modi più efficienti di respirazione visto che il solo risultato sarebbe stato quello di rimpicciolire il loro mondo (in altri termini, il bauplan degli insetti è adatto ad un mondo che ha innegabili vantaggi rispetto al nostro). Lo hanno lasciato a noi, il compito di trovare il modo di ossigenare un corpaccione, dato che loro hanno scelto per primi.

Ancora di più, e tanto per esagerare, io penso che le dimensioni da considerare, in un organismo mobile, non siano quelle complessive, bensì la sezione perpendicolare a quella del suo movimento. Per fare un esempio, agli effetti della grandezza del suo mondo un lombrico non è il suo volume, ma l'area della sua sezione trasversale. Come si dice, dove passa la testa passa anche il resto. E il resto, che sta dietro a rimorchio, e che non influisce sull'ampiezza della superficie strisciabile, sulla grandezza del suo mondo, quella parte può essere usata per stiparci organi di tutti i tipi. (Ovviamente non esistono lombrichi di cento metri di lunghezza e di un centimetro di diametro, ma questo esula dal mio ragionamento, e tira in ballo limiti metabolici e di altro genere. Parlando dell'area della sezione trasversale come elemento da considerare, ne parlo solo in riferimento alla grandezza del mondo, tralasciando le altre considerazioni, che pure ci sono). Comunque questo, io penso, potrebbe essere il motivo per cui la forma a verme è così diffusa in così tanti cladi diversi. Una convergenza adattativa per ingrandire il mondo. Sì, mi rendo conto che l'aumento dei metameri, almeno negli organismi che li hanno, è un meccanismo genetico relativamente semplice e che conduce inevitabilmente all'allungamento. Ma la duplicazione di un gene hox spiega solo il modo in cui avviene, non il vantaggio che ne consegue.

Le specie egoiste

Questo blog inizia in maniera insolita, con un pezzo scritto a quattro mani con Tupaia e già pubblicato tempo fa sul blog L'orologiaio miope, in occasione del carnevale della biodiversità (http://www.lorologiaiomiope.com/le-specie-egoiste/). Una scelta che però ha un motivo. L'idea di base di questo post mi servirà, più avanti, come punto di partenza per un paio di sviluppi, inerenti all'origine del sesso e ai meccanismi di speciazione simpatrici, e non vedevo motivo di riscriverlo. Quindi eccolo qui.


La competizione per il cibo e lo spazio viene vista, solitamente, come una lotta fra specie diverse. Cosi’ Darwin descrive la competizione tra specie, rappresentate dai cunei:
"La Natura puo’ essere comparata a una superficie cedevole fatta di diecimila cunei acuminati gli uni vicini agli altri e spinti all’interno da colpi incessanti, a volte un cuneo viene colpito, quindi un altro con ancora piu’ forza" [L'origine delle specie, Capitolo III, 1859].In realtà, i cunei sono alcuni milioni, e ogni volta che ne batti uno più forte, un altro salta fuori. E’ una bella similitudine e rappresenta abbastanza bene la lotta tra le specie per "la minima quantita’ di cibo richiesta da ogni essere vivente". Una specie viene portata all’estinzione da un’altra, e questo e’ quel che vediamo, ed e’ anche una buona rappresentazione.

A nostro avviso pero’ le cose funzionano cosi’ solo al nostro livello primario di percezione. Noi siamo abituati a pensare in termini di eserciti che conquistano, o che vengono sconfitti, e cosi’ vediamo le varie specie in conflitto nello stesso modo. Specie in lotta fra loro. E’ una rappresentazione utile secondo alcuni angoli visuali, ci fa comprendere più facilmente alcuni meccanismi, esattamente come i concetti dell’economia umana ci fanno comprendere meglio l’ecologia. Tuttavia l’economia umana implica una scelta volontaria, cosciente, che non esiste nei sistemi ecologici. E’ un’analogia, una buona analogia, a patto di ricordarsi che non è più di questo. E così è per la competizione fra specie diverse. Una buona analogia, che aiuta a comprendere, ma non più di questo.

C’era una vecchia barzelletta, due escursionisti che, dall’altra parte della valle, vedono un orso che corre verso di loro. Uno dei due comincia a scappare, l’altro si ferma, tira fuori le scarpe da ginnastica dallo zaino e se le mette. Il primo si volta e, sorpreso, dice: "Ma credi di correre piu’ veloce dell’orso, con quelle?" "No", risponde l’altro, "e neppure mi serve. Mi basta di correre piu’ veloce di te". Il punto cruciale di questa storiella e’: chi e’ che lotta? A che livello avviene la competizione? La parola "competizione" e’ in realta’ fuorviante. Implica, come l’economia, un atto volontario. Sarebbe piu’ corretto parlare di "prevalenza". Se usiamo questo termine ci rendiamo conto che i leoni non "prevalgono" sulle iene, e neanche sulle gazzelle. Quello che realmente succede è che, all’interno di una popolazione, alcuni individui si riproducono più di altri, e che quindi alcuni alleli aumentino la loro frequenza nella generazione successiva. Cio’ che prevale alla fine dei conti sono delle buone combinazioni genetiche di un individuo "vincenti" su analoghe combinazioni di alleli di un altro individuo. Se scendiamo a livello di alleli e di combinazioni di alleli non possiamo fare altro che compararle all’interno della stessa specie, poiche’ specie diverse avranno geni differenti, i cui alleli non possono competere fra loro per aumentare la frequenza nella popolazione. E’ sicuramente un’ottica riduzionista, tanto quanto la teoria dei geni egoisti di Richard Dawkins, perche’ presuppone che tutto, ma proprio tutto, alla fine si riduca alla chimica del DNA. Ma e’ un punto di vista che funziona, che chiarisce degli aspetti, per quanto ci dia fastidio.

Puo’ sicuramente accadere che buone combinazioni alleliche, che sono state trasmesse per molto tempo alle generazioni successive, ad un certo punto non siano piu’ adatte e l’individuo muoia e con esso la specie. Dal punto di vista dei geni questo e’ irrilevante, sono programmati per copiarsi, per prevalere su analoghe combinazioni cromosomiche, e’ tutto quello che sanno fare, e non c’e’ modo di riprogrammarli se cambiano le condizioni al contorno. Cerchiamo di chiarirci: la sopravvivenza e’ certamente un fattore utile al sucesso riproduttivo, per via che da morti ci si riproduce pochino davvero. Quindi puo’ sembrare che ci sia competizione fra, diciamo, leoni e jene per lo stesso spazio e le stesse risorse. Ma in realta’ sono i leoni che competono fra loro, e il piu’ lento muore di fame. E sono le jene che competono fra loro, e la piu’ lenta viene sottomessa e non si riproduce. Le gazzelle lente vengono mangiate da entrambi, ma quelle con le scarpe da ginnastica trasmetteranno i loro geni alla progenie.

Ci sono limiti e costi, bauplan, ontogenesi e limiti abiotici. Non sapremmo dire se la piu’ veloce delle gazzelle, per come e’ organizzata, possa correre piu’ in fretta del piu’ veloce dei ghepardi. Ma sappiamo che non le serve, visto che il ghepardo mangera’ quella un po’ piu’ lenta. E la piu’ veloce si riprodurra’ e anche il ghepardo, in questo modo selezionando certi geni e quindi in un certo modo "modellando" la specie in base alle circostanze. Ma alla fine i conti li fanno le gazzelle tra di loro e il ghepardo e’ solo una condizione al contorno, un fattore ambientale tanto quanto la temperatura, la resistenza alla sete o la presenza di bufali.

Facciamo un altro esempio: gli insetti. Quando il cibo abbonda un mucchio di specie si danno alla partenogenesi. Salvo qualche ricombinazione qua e la’, la composizione allelica della progenie e’ la stessa. E perche’ no? E’ un set di geni che dimostrabilmente funziona, e l’abbondanza delle risorse annulla la competizione intraspecifica. Pero’ appena le risorse scarseggiano si torna alla riproduzione sessuata, che rimescola le carte degli alleli alla ricerca del figlio che si riproduce più degli altri. Può essere, e di solito è, che sia il più adatto all’ambiente contingente, ma non è necessario. Può essere il meno adatto ma il più attraente, per via di adattamenti pregressi che non funzionano nella attuale contingenza.

Cambiamo punto di visuale e per una volta vediamola alla rovescia. L’adattamento è una conseguenza casuale della prevalenza di un allele, o di un insieme di alleli, su un altro. Gli alleli sono ciechi, e se anche vedessero non vedrebbero il futuro. Si duplicano oppure no. Tutto qui, in funzione di circostanze esterne, che non sono sotto il loro controllo, che non possono vedere, nè tantomeno prevedere. Il che significa, sostanzialmente, che la competizione e’ intraspecifica: se tutti i biglietti della lotteria vincono il premio, perche’ dovrei cambiare il numero? Ma nel momento in cui il fattore che decide la vincita e’ la limitazione dei premi e la fortuna di imbroccare il numero giusto, allora mi conviene avere piu’ numeri possibile. Perche’? Perche’ competo con altra gente, della mia specie, che vuole vincerla, quella lotteria. C’era competizione fra il dodo e i portoghesi? E c’era competizione fra i dinosauri e il meteorite? E dov’è esattamente la differenza fra un portoghese e un meteorite, dal punto di vista di un allele cieco?

Ci sono molti studi condotti in laboratorio su cosa e’ piu’ determinante per il tale coleottero, vongola o albero, se la competizione intraspecifica o interspecifica. Molti di questi studi hanno risultati variabili e fortemente influenzati dalle condizioni sperimentali, e il nostro modesto punto di vista e’ che quegli autori stessero guardando il panorama da un punto di vista falsato. L’apparente competizione interspecifica, se porta all’estinzione, dice solo che la competizione intraspecifica ha portato alla vittoria un insieme di alleli casualmente non adatti ad un ambiente casuale. Noi diremmo, per concludere, che in ogni popolazione le combinazioni alleliche degli individui competono per il cibo e lo spazio, e quindi per la possibilità di riprodursi, in un determinato contesto imprevedibile o imprevedibilmente influenzabile. E questo sarebbe un argomento da sviluppare.